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Agli Stati Generali dell’Economia la bellezza come chiave di rilancio del Paese

Carla Tomasi, presidente Finco, e Giuseppe Conte, presidente del Consiglio (foto Finco)

Agli Stati Generali dell’Economia convocati dal premier Giuseppe Conte a Villa Pamphilij, Carla Tomasi, presidente Finco (Federazione industrie prodotti impianti e servizi ed opere specialistiche per le costruzioni) è intervenuta dicendo «Se la bellezza è una delle chiavi per il rilancio del nostro Paese, allora per la bellezza dobbiamo prodigarci ed in essa dobbiamo credere, ma solo a patto di sapere e volere usare tutte le tecnologie e il miglior know-how. E se il nostro paesaggio naturale è per gran parte merito della posizione geografica, del clima e della natura, non è cosi per l’opera dell’uomo che in Italia ha trovato espressioni altissime, plasmando anche tale paesaggio con architetture storiche e giardini.  Senza la qualità, senza la specializzazione, soprattutto senza le professionalità di settore, che sono la traduzione moderna dello spirito rinascimentale, non avremmo ciò che abbiamo e non potremmo conservarlo. Troppe volte è dimenticato che il made in Italy è anche questo.

Non a caso, già nell’ottobre del 2016 Finco, consegnò all’Esecutivo un progetto denominato “Per un’Italia più Bella e più Sicura” che partiva dal presupposto che se è certamente importante l’apporto che le infrastrutture possono dare al rilancio dell’economia del Paese, assai meno approfonditi risultano invece gli aspetti specialistici legati alla manutenzione, alla diagnostica e dunque alla valorizzazione e salvaguardia del nostro territorio e di ciò che su di esso è costruito.

La manutenzione appunto, e la sua previdente e sapiente programmazione, dovrebbe da una parte prevenire gli effetti degli eventi calamitosi e dall’altra innescare una filiera virtuosa, un volano di interessi produttivi positivi, rivolto a settori di grande qualità che possono garantire quei mille piccoli cantieri – in diverse aree e settori economici – non meno importanti ai fini del suddetto rilancio. Non a caso si è detto che spesso i restauri – per citare una categoria specialistica – hanno fatto più danno delle calamità naturali, e un manufatto artistico danneggiato è irreversibilmente perso.

In questo quadro è necessario resistere a parole d’ordine che, più che di semplificazione, sanno di un semplicismo tipico di chi conia slogan ad effetto senza conoscere cosa siano i cantieri.

La semplificazione e la sburocratizzazione di cui abbiamo bisogno  devono riguardare le procedure, specie quelle che precedono le fasi di aggiudicazione, i permessi, i tempi delle autorizzazioni, un più ampio e deciso uso delle conferenze di servizi e degli istituti del silenzio/assenso [un discorso a parte su questo tema meriterebbero i beni culturali], tanto per fare degli esempi,  non certo le verifiche della qualificazione delle imprese e delle loro specializzazioni, né delle stazioni appaltanti, se non vogliamo continuare a versare lacrime – ma di coccodrillo – ogni volta che crolla un ponte, che delle barriere di sicurezza si sganciano dalla sede autostradale, o anche, che un’opera d’arte subisca un danno irreparabile .

C’è stato ed è in corso un dibattito su un imminente DL Semplificazione che conterebbe anche previsioni in tema di appalti: se cioè – per sintetizzare – sia meglio ispirare questa semplificazione al modello ricostruzione del ponte Morandi o a quello dell’Expo, il primo che elimina in radice le procedure di gara, il secondo che alleggerisce le autorizzazioni, ma che ha visto impegnata Anac in un controllo serrato contro abusi e irregolarità. Noi pensiamo – sottolinea la Presidente Tomasi – che questi due modelli siano irripetibili per l’emblematicità che li ha contraddistinti e non replicabili nella “normalità”.

La pesantezza dei processi autorizzativi può ben essere sostituita da una più snella autocertificazione, a patto però che il sistema disponga di un robusto e collaudato servizio ispettivo sia da parte della stazione appaltante sia dell’appaltatore in autodisciplina, ma anche e soprattutto di un adeguato apparato ispettivo del Ministeri competenti e di ogni altra Amministrazione che bandisce una gara.

Burocrazia è anche resistenza – non solo “difensiva”- dei pubblici dipendenti che preferiscono rimanere fermi – senza alcuno che sancisca questo comportamento – piuttosto che  assumersi le responsabilità connesse al proprio ruolo.

Ed è proprio questo l’altro grande freno.

Un ulteriore grande freno nei lavori pubblici è costituito banalmente dalla scarsa liquidità degli impieghi. Si perdono anni per reperire fondi, anche se già stanziati; indi, gli stati di avanzamento dei lavori non vengono pagati con regolarità e di conseguenza i lavori si fermano e generano contenziosi esorbitanti oppure le risorse faticano a giungere all’operatore reale  che diviene un fragile finanziatore dell’opera: quando, alla fine, i soldi arrivano sono raddoppiati i tempi e i costi dell’opera e talvolta l’appaltatore, e tutti coloro che hanno lavorato per lui, sono falliti o fuori mercato.

Simile al famoso “volo del calabrone”, l’Italia non sa di non poter volare per il suo rapporto tra peso-apertura alare e quindi vola, o meglio ha volato. Ha volato per un principale, se non unico, motivo: le imprese, più precisamente le piccole industrie, è ciò nonostante decenni di politica inutilmente antindustriale.

Dove si può aprire qualche varco di miglioramento, magari collegato a determinati passi e iniziative politiche e normative?

Prima di tutto nell’industria, parlo di quella esposta alla concorrenza interna e internazionale che produce ed esporta ed in un ruolo dello Stato volto a:

  1.    Contrastare i grandi rischi di massa del Paese (rischio sismico, idrogeologico, ambientale e relativa messa in sicurezza del terri­torio). Esistono già stanziamenti dello Stato in merito, progetti, e una forte attesa d’intervento: quello che manca è forse una task force industriale che aiuti concretamente lo Stato, settore per settore, per redigere i relativi piani industriali fino a portarli nella fase di esecuzione. Sotto questo profilo il Tavolo a suo tempo inaugu­rato dal Ministro Patuanelli, con i relativi sottogruppi, potrebbe essere un buon inizio, auspicando abbia seguito.
  2. Mettere in sicurezza le infrastrutture viarie: la viabilità del Paese è allo stremo per mancanza o carente manutenzione ordinaria e, soprattutto, straordinaria, in particolare per ponti e viadotti che hanno più di 50 anni. Rischi temuti e crolli effet­tivi dei manufatti, frequenti in questi ultimi anni con tendenza al peggioramento, oltre a costituire un grave pericolo per la incolumità degli utenti delle strade, recano un danno consi­stente anche all’economia del Paese per ritardi e talora isola­mento di intere zone produttive del Paese.
  3. Accelerare il processo di transizione verso la green economy ed investire nello sviluppo e consolidamento delle fonti rinnovabili e dell’efficienza energetica, quali driver di sviluppo anche locale.
  4. Valorizzare quel grande motore di ripresa che nasce proprio dalle imprese Specialistiche e Superspecialistichedi tutti i settori. Noi abbiamo esperienza, in particolare, delle specializzazioni nei Llpp (sigla Soa Os) che danno spesso il senso alle opere, grandi o piccole che siano. Lo Stato, in questo settore, si è rivelato all’avanguardia, dando una identità a queste eccellenze, tramite un sistema di qualificazione tendente a “proteggere” tali settori di eccellenza. Per le imprese specializzate del settore privato – nonostante il know how di cui sono depositarie, “l”altro made in Italy”, – invece, non esistono parametri e, pertanto, non vi sono promozioni di sorta in quanto mancano anche i paradigmi dell’identità.

L’Italia da oltre vent’anni non cresce più; ben prima della tremenda ferita Covid-19 ed anzi nel 2020, senza tale emergenza, sarebbero apparsi i primi timidi segnali di inversione di tendenza.

L’ingresso nell’euro – che pur ha portato problematiche ben bilanciate tuttavia da aspetti positivi – non può certo ritenersi responsabile di questa decadenza.

I Governi che si sono succeduti in questi vent’anni ben poco hanno voluto o saputo fare per arginare tale deriva.

Le ragioni da individuare sono più complesse poiché riguardano il Paese “profondo”. Paese nel quale deve avvenire un cambio di paradigma culturale ancor prima che produttivo. La responsabilità individuale, la consapevolezza che insieme a diritti sempre reclamati esistono anche doveri inderogabili, il ripristino di una meritocrazia nelle scelte e nella selezione della classe dirigente costituiscono altrettante priorità senza le quali la reazione del Paese non potrà essere realmente efficace».